La malattia non è solo un fenomeno individuale, né si colloca nel vuoto sociale, ma si inserisce in un più vasto contesto socio-relazionale che coinvolge tutte quelle figure che, a titolo formale (medici, infermieri, professionisti del settore) o informale (familiare o amico del paziente), prestano assistenza al malato.
“Ne ‘Il Conte di Montecristo’, uno dei capolavori di Alexandre Dumas, la piccola Valentina aiuta il nonno paralitico ad esprimersi attraverso un vocabolario; io ho dovuto fare qualcosa di simile.
Mi chiamo Naomi, adesso ho ventinove anni, ma quando è iniziata avevo da poco finito la scuola. Ho perso mia madre ancora bambina a causa di un tumore, forse credevo di aver accettato la presenza della malattia nella vita ma, quando fu diagnosticata la SLA all’unico genitore che mi era rimasto, ho capito come sia difficile affrontarla e prendere necessariamente consapevolezza dell’essere adulti.
Nel 2013 avevo vent’anni, ho dovuto abbandonare tutto per dedicarmi a lui, quella vita futura che mi si prospettava, che mi stavo faticosamente costruendo, mi fu strappata via con veemenza.”
Tali figure vengono indicate col termine anglosassone caregiver che indica letteralmente “colui che presta le cure”. Se il caregiver formale, essendo un professionista specializzato, è riconosciuto a livello istituzionale, lo stesso non può dirsi per il caregiver familiare che svolge un ruolo di supporto e di cura in maniera gratuita e priva di solide tutele normative. La crescente diffusione di tale figura chiama in causa la dimensione psicosociale della malattia che, investendo non solo il paziente in prima persona, ma anche i congiunti, richiede a questi ultimi di affrontare un faticoso processo di accettazione della malattia e di adattamento, riorganizzando completamente la propria esistenza.
L’attività di caregiving impatta su tutti gli aspetti della vita, dalla salute psico-fisica, al lavoro, al tempo libero, alle relazioni sociali. Chi assume il compito di sostenere una persona affetta da patologie invalidanti, si ritrova a dover prestare assistenza in maniera continua e costante, instaurando con l’assistito un rapporto simbiotico e totalizzante. Il caregiver è, inoltre, spesso costretto a rinunciare al proprio lavoro o ad accontentarsi di lavori saltuari, mal retribuiti e privi di garanzie contrattuali per poter più agevolmente conciliare l’impegno a casa con l’attività lavorativa. Sottratto, così, non solo al tempo del lavoro, ma anche a quello del loisir e, di conseguenza, a tutte le relazioni sociali significative, il caregiver viene confinato in un pernicioso isolamento sociale.
“Gli aiuti? Pura utopia.
Fu soprattutto la mancata copertura sanitaria ad essere causa di demotivazione per papà: ha dovuto richiedere la pensione anticipata che, dunque, era minima. L’accompagnamento, che tanto aveva faticato per ottenere, non bastava e degli assegni di cura neanche l’ombra: dovevo lavorare.
Il programma di cura sperimentale del San Raffaele di Milano aveva portato ottimi risultati ma, tornati a casa, l’inadeguatezza delle strutture e le limitate possibilità economiche di cui disponevamo, impedirono ulteriori miglioramenti”.
Lasciato solo anche dalle istituzioni, si trova spesso impreparato ad affrontare e gestire la malattia, sia per quanto riguarda le conoscenze mediche – dovendo, quindi, acquisire un nuovo sistema di competenze – sia dal punto di vista emotivo. Il senso di inadeguatezza e l’eccessivo carico di lavoro possono portare il caregiver a un crollo psicologico, noto come sindrome del burnout ovvero uno stato di stress ed esaurimento emotivo, fisico e mentale.
“ D’altronde, mio padre, venne ricoverato all’ospedale di Caserta nel reparto di medicina d’urgenza che non faceva al caso suo: i danni psicologici, dovuti all’ aver assistito alla breve degenza di malati senza ormai speranza di sopravvivere, furono irreparabili, ma non solo quelli: basti pensare che fu convinto ad operarsi con l’inganno, perché gli assicurarono che avrebbe nuovamente potuto parlare e mangiare.
Impossibile. L’aiuto maggiormente concreto mi fu dato dall’associazione AISLA (Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica), anche quando presentai una denuncia contro l’ASL.
Non avevano nemmeno il computer oculare, pertanto dovetti scrivere le lettere dell’alfabeto su di un foglio e alcune parole chiave affinché capissi cosa volesse comunicarmi.
Paradossalmente abbiamo passato molto più tempo insieme: lui non poteva lavorare né io studiare, e di ciò sono stata felice perché ci siamo goduti l’essere vicini… poi è finita, nel 2018, dopo cinque lunghi anni.”
‘’Un mese prima della sua scomparsa mi è stato consegnato il sollevatore, l’ho regalato pressoché inutilizzato e ancor oggi soffro di problemi alla schiena: dovevo sollevare da sola quel corpo costretto ed inerme.
In seguito al decesso ho dovuto ricostruirmi una vita e quando, finalmente, gli sforzi ed i sacrifici avevano portato i loro frutti… mi è rovinosamente crollato addosso l’essere sola, l’aver perso sia mia madre che mio padre.
Oggi mi sto aiutando con un percorso psicoterapeutico, non è facile convivere con il passato; ho capito che non posso risolvere sempre tutto da sola, avevo bisogno anch’io di sentirmi al sicuro.’’
Sebbene il caregiver costituisca un perno fondamentale del sistema assistenziale configurandosi non solo come un lavoro a tutti gli effetti, ma come un compito dall’elevatissimo valore umano, sociale ed economico, la legislazione italiana stenta a riconoscere tale figura e a tutelarla dal punto di vista previdenziale e sanitario. Ma in una società che sia realmente inclusiva e democratica, al di là della retorica, il peso della malattia non può ricadere solo sulle spalle del paziente e dei suoi familiari, per questo il nostro appello si rivolge ai policy makers affinchè implementino adeguate politiche di conciliazione tra famiglia e lavoro e attivino una valida rete di supporto sia sanitario che psicologico con lo scopo che i caregiver non continuino ad essere le vittime invisibili della malattia.